Dreamers,
quanto amiamo i viaggi? Continuiamo a farne in compagnia di Barbarah Gluglielmana ed il suo DAVANTI ALLA TENDA, pubblicato con Lieto Colle Editore.
Recensione a cura di Vincenzo Calò
Testimonianze a pelle, d’impulso, si raccolgono con
l’espediente romantico per approfondire l’affetto più esaltante che ci possa
essere.
Dell’ego armonico ci si fa carico per interpretare la
propria parte alla grande e aspettare in piccolo che l’immaginario, bello
ch’esteso, si liberi per verseggiare sui giorni che non tornano, appassionando.
Un concentrato di volontà viene assunto sapendo da subito,
da poetessa, di maturare una condizione di donna nient’affatto riduttiva per la
gioia ch’esce fuori ad appagare particolarmente.
La sensibilità in parole della Guglielmana lievemente si
addossa il massimo piacere, che si prova bilanciando, calmandosi; e con essa
ritroviamo della sana baldanza nel porsi dei limiti.
La poesia, lavorandola, si evolve in origine, quasi per
narrare, e nuovamente spunta quella dote imprescindibile, da sfoderare per
coinvolgere con intensità come a prestare le dovute cure alla propria anima.
Sul finire della silloge, l’accento si disincentiva, e si
schiarisce una fidata tristezza di base; ne consegue la soavità di una
decadenza di pensiero, da trasmettere per sempre, all’oggi.
Le figure umane che smuovevano Barbarah da bambina sono
racconti di attimi che si gonfiano piano, meravigliosamente, col senso della
privacy, tra le verifiche dell’intuizione vitale, di un tris d’assi
attitudinali; per amore, spontaneità e legame di sangue.
Però è come se molta felicità si sacrificasse, e non
resterebbe che spiare, nei fori di una rete di protezione a scapito di esseri
pungenti, invisibili, proprio quella loro sfrontatezza che non ci appartiene.
Per non cadere in depressione occorre avanzare, dimenticare,
alla portata di tutti, l’essenza di un’immagine; a costo di nutrirsi per
convenienza, purché si rimetta per reagire e sentire così di stare a respirare.
In assenza di qualsiasi impedimento, i consigli su come
traspirare trasparenze deliziano, come la solennità di un rito che caratterizza
l’umiltà di univoca specie, a procedere china, con la mente incapace di
alleggerirsi.
Le preoccupazioni sembrano esigere carezze, mentre “lei”
ingurgita materiale preziosissimo; e il più forte sentimento il suo ricamo,
spostandosi per preparare cose prelibate e rifiutarle tardivamente… per
lasciare il segno e ricominciare daccapo a sistemare l’ordinario.
Vedersi nudi era un modo per divertirsi e crescere?
No, s’è trattato di un errore di valutazione in prospettiva,
imperdonabile!
Sprovvisti dell’aspetto fisico, tendenziale, v’è una fonte
d’energia primaria che ricaviamo di getto, inasprita, tanto da renderci
ugualmente aridi dentro; e, dovendo resistere alla superficie pervasa dalle
piogge, nei gesti che ti aspetti ma che si tengono in serbo, facciamo razzia
del creato che si avvicina spiritualmente, privato del tempo per consolidare.
Gli astri si calano, s’imputridiscono col freddo di una
coppia di amanti la cui complicità si spegne in aria; e Barbarah è convinta che
tutti se la prenderanno con lei, come se fosse stata l’autrice ad aver diretto
un mistero come pochi, con un dato compagno succube, e non viceversa.
La Guglielmana amabilmente si scorda di vivere, essendo
fedele al suo arbitrio, e della vastità che la circonda rilascia una carenza
semioscura, alla probabilità di rialzare la testa e stimarsi, come la luce al naturale
che trastulla le primizie non suscitanti più la benché minima atmosfera,
distrutte dalla progressione dell’Essere.
Trattasi di una donna che ha desiderato e ricevuto il bene
di una e più poesie, dando in cambio un sentimento tutto da provare; magari per
l’uomo che se si ammutolirà infinitamente allora verrà considerato?
E dunque di una melodia che strugge per com’è perfetta, con
le componenti gettate nell’aria quando essa ti aggredisce all’attesa di un
mezzo di trasporto, a rinfrescare la decenza sessuale, necessaria per
ricondursi alle lotte per la dignità di genere, con abiti nuovi, ma pur sempre
in segreto, come nell’inconsapevolezza accresciuta dalla fertilità sommessa ma
straripante.
“Mi cambio e mi
nascondo”.
La poetessa appare nel pianto da gustare, da strappare dagli
occhi; essendo anche solita a esibirsi con sterili motivetti, in balia di
un’eccessiva temperatura corporea o di soluzioni alcoliche per debellare il
cattivo umore… come se non si fosse accorta di non aver ancora intenerito le sue
emozioni, una volta distaccatasi da sé per forza di cose, al margine di una
città sollevato da anime che scrivono per letture da concretizzare.
Un cenno di follia insuperabile da ingerire, e si torna
puliti, per non dire sotto colate di cemento, distanti dalla fitta vegetazione
che le allegre accelerazioni della Fantasia riproduce; con la malinconia che
perdura ma che non stanca se ti attivi per riconoscerti, in possesso di
un’ambizione almeno, in assoluto.
Senza badare a quel che si sprigiona pigramente, per
disperdersi nell’intento di cogliere la bella stagione e fare disordine tra le
novità… in un luogo massimale; nella morsa, oramai allentata, dell’esistenza
terrena.
Sono molti gli acumi destinati quasi a macchiarsi, di dura,
femminea, fermezza, che gli uomini non devono manomettere oltremodo illudendo;
l’autrice sembra addirittura implorare a codesti l’incutersi della reale
bellezza planetaria, l’avidità nell’assaporare la bontà centellinabile quando
il cuore batte forte, sistemando un’immagine da schiarire, tra le riflessioni
occupanti l’altrove che si mostra immenso alzando lo sguardo urbanamente
preteso.
Il rischio di soffocare sobbarcandosi della nullità stando a
quanto emesso, alla reintroduzione mai complementare degli amorosi sensi, si
frammenta constatando quel vento scaturito dagli spostamenti del partner, a
spegnere la passione appiccata per polverizzarsi piacevolmente.
E rientrano le esitazioni finemente proporzionali alle
meditazioni, per miracoli da seguire continuamente, tumultuosamente; tipo la
felicità per una relazione autenticata, che sgorga dagli occhi e travolge le
nudità.
Si è in cammino, “facendo il verso” al poeta monumentale,
come un minuscolo essere vivente abilissimo a conservare ciò che ha da
consumare, addolorato da un vortice regressivo che pulsa in grembo, la messa in
panico che aggrazia invitando a respirare saggiamente, a osservare il tizio
che, per evitare il maltempo, se lo prende invece in pieno, mentre una
musicante, leggiadra, si eleva fino alla cognizione atmosferica perfetta,
procacciando le menti di profondi scopritori di sé; fino alla motivazione
imprescindibile se si dà adito al corso del tempo, per cui è necessaria della
solitudine serafica alla “lei” radicata, convinta che i rapporti carnali non si
rimediano ogni volta fugacemente e in maniera esemplare, alla strenua del
distensivo pudore.
Dovendo ragionare talvolta in controtendenza, e ritrarre
qualcosa di logico sul telo dell’aldilà, in possesso di quella libertà per
infondere aforismi dedicabili a una carenza di propositivo impatto.
Rimangono dunque fogli per trattare crolli di psiche, voli
nell’aria avversa per principio, alla boccata d’ossigeno che incorpora chi si
distacca dalla propria posa, chi si riordina per effetto della coscienza, nell’interpretazione
della concretezza appesa al muro della memoria, magari dai propri nonni.
Barbarah infatti assorbe, dal trafiggente buonsenso dei suoi
cari, degl’intenti indefinibili per natura, mentre spiega come poter ascoltare
il mutismo degli anni trapassati, al richiamo della quotidianità (quando non
appesantiva come oggi), che incuriosisce solo quand’è possibile accarezzare le
diversità di carattere, di espressione, di armonia, per stabilire il vissuto;
con la commozione che abbaglia, a causa di volontà più che tangibili, tipo
quella di lasciar sbocciare fiori che profumino di morte, scalfendo l’olfatto
intrattenibile per esperienze significative, da custodire.
Dei volatili fatti d’infamia e di lode, intanto sembrano
capaci di lasciare in sospeso la poetessa, di renderla raggiungibile, lungo una
via da illuminare attraversandola, anche scrivendo pensieri su pensieri come a
piovere nuovamente; e perché no sfidando l’entusiasmo per sostare nella casa di
Dio e scioglierne i particolari in compagnia di persone che ti aprono il cuore,
desiderando oltremodo di tornare indietro per godere di un’innocente passività?
“Cambierei ogni
preghiera disperata di me adulta
con quelle
preghierine di allora…”.
La nostalgia rimanda alla cura spasmodica, che si reputa solo
dopo elettrizzante, dei sogni di una fanciulla che dovevano assolutamente
uscire fuori.
Al buongusto da considerare istintivamente, senza badare
alle conseguenze, per far sì che l’autunno risulti per sempre incantevole,
quanto il nervo scoperto che non va masticato a dismisura, d’accusare al
proliferare di una valenza impossibile da complessare e per giunta col cattivo
appetito, accelerante gli eventi con in mezzo quella maledetta sensibilità da
sviluppare.
Per fare pulizia sulla morale che non ci potrà mai
appartenere, pur costretti a tatuarcela per l’ossessivo ricordo di un tesoro da
smitizzare per il bene di una creatività impellente, per la minuziosa unicità
d’abbinare al presente.
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